Uno dei temi più insidiosi con cui ogni avvocato civilista si trova a doversi confrontare costantemente riguarda i termini processuali.
Il Codice di Rito, agli artt. 152 e seguenti, detta alcune disposizioni di carattere generale, dalle quali, anzitutto, desumiamo che i termini processuali devono intendersi come ordinatori, salvo che la Legge li qualifichi espressamente come perentori (art. 152).
La caratteristica peculiare dei termini perentori è che non possono mai essere oggetto di proroga, nemmeno su accordo delle parti (art. 153 comma 1°). Ciò non significa che, laddove una parte processuale abbia sfortunatamente disatteso un termine di natura perentoria, non esista rimedio alcuno per ovviare alle decadenze maturate: il Legislatore infatti prevede che la suddetta parte possa instare per essere rimessa in termini, a patto che dimostri che il mancato rispetto del termine non sia alla stessa imputabile a titolo di colpa e/o negligenza e/o imperizia (art. 153 comma 2°).
In tema, la Corte di Cassazione interveniva con la sentenza n. 32136 in data 10/12/2019 nella quale riteneva opportuno enunciare nell’interesse della legge (il che la dice lunga circa l’importanza attribuita alla questione) i seguenti principi: “L’istituto della rimessione in termini non ha nulla a che vedere con la proroga dei termini, e anzi ha per presupposto l’impossibilità giuridica di quella. La proroga, infatti, è prevista dalla legge solo per i termini ordinatori; solo prima della scadenza, e solo per motivi particolarmente gravi. Con essa, il giudice accorda alla parte interessata un differimento della scadenza del termine per il compimento dell’atto processuale. La rimessione in termini è istituto ben diverso: essa ha per presupposto la decadenza incolpevole da un adempimento processuale, e non differisce il termine già fissato, ma rimette la parte interessata nella medesima posizione in cui si sarebbe trovata, se il primo termine inutilmente scaduto non fosse mai stato fissato. La proroga, dunque, evita una decadenza, mentre la rimessione in termini sana ex tunc una decadenza già verificatasi. Non è, dunque, corretta l’affermazione del giudice di merito, secondo cui tutti i termini perentori sono prorogabili (e, quindi, anche del termine per il pagamento del prezzo a norma dell’art. 585 c.p.c.) ai sensi del novellato art. 153, comma 2, c.p.c.”.
Interessante notare che il citato arresto di legittimità riguardava una fattispecie non infrequentemente sottoposta all’attenzione dei Tribunali, ossia il ritardo nel versamento del saldo prezzo da parte del soggetto che si sia reso aggiudicatario di un immobile posto all’asta nell’ambito di un’esecuzione immobiliare.
Pensiamo al caso di una persona che, immediatamente dopo l’aggiudicazione, dia avvio alle pratiche per ottenere un finanziamento necessario a conseguire parte della liquidità per provvedere al saldo prezzo ed ipotizziamo, nel contempo, che la relativa istruttoria bancaria si protragga per mesi in maniera del tutto imprevedibile per poi concludersi positivamente a termine perentorio, tuttavia, oramai decorso; orbene: in tal caso, l’aggiudicatario potrà senz’altro ambire ad essere rimesso in termini laddove dimostri, appunto, le tempistiche oggettivamente anomale d’erogazione del finanziamento richiesto.
Anche per i termini ordinatori, il Legislatore detta una disciplina di base, che tuttavia lascia aperti alcuni interrogativi non banali.
Il termine ordinatorio anzitutto, a differenza di quello perentorio, può essere prorogato d’Ufficio prima della sua scadenza, sempre che non sia stabilito a pena di decadenza, e la proroga non potrà avere una durata superiore al termine originario; resta esclusa, salvo casi eccezionali, un’ulteriore proroga (art. 154).
Il complesso normativo in commento, tuttavia, non spiega quali siano, in concreto, le conseguenze derivanti dall’inosservanza di un termine ordinatorio; per essere ancora più chiari: quid iuris laddove una parte processuale non si premuri di chiedere, ante scadenza, la proroga di un certo termine ordinatorio e porti arbitrariamente a termine un certo incombente a termine oramai decorso?
Giurisprudenza e Dottrina si sono sbizzarrite a formulare variegate opzioni interpretative che possono essere riassunte nei seguenti termini: secondo alcuni l’atto tardivo sarebbe certamente invalido (opzione questa che pare preferita dalla Cassazione, come dimostra Cass. Civ., Sez. Un., n. 20604/2008), secondo altri (vedi Liebman e, in tempi più risalenti, Satta) l’intervenuta decorrenza del termine non avrebbe alcun riflesso pratico sulla validità dell’atto tardivamente posto in essere, mentre secondo un’ulteriore visione spetterebbe al Giudice di merito valutare caso per caso la sussistenza dei presupposti per ritenere o meno salva la validità dell’atto tardivo.
In linea di massima, quest’ultima visione intermedia – acutamente definita “tesi della tolleranza logica” (vedi Luigi Viola, La perentorietà tollerante dei termini ordinatori processuali, articolo pubblicato sulla testata on line www.judicium.it) – risulta convincente: appare, infatti, sensato sostenere che la violazione di un termine ordinatorio possa perpetuarsi fino alla verificazione di una situazione processuale incompatibile con il suo tardivo adempimento. Opinare diversamente rischierebbe infatti di condurre a conclusioni assurde: nessuno mai, ad esempio, si sognerebbe di sostenere che una sentenza depositata oltre i termini (pacificamente ordinatori) di cui all’art. 275 c.p.c. sia inutiliter data oppure che un piano di riparto ex art. 596 c.p.c. formato oltre i trenta giorni dal versamento del prezzo (termine a sua volta senz’altro ordinatorio) vada per forza ridepositato nei termini sotto pena d’inutilizzabilità a fini distributivi.
Nella prassi, tuttavia, non è da escludere che si presentino casi nei quali la lodevole elasticità mentale anzidetta potrebbe rischiare di tramutarsi in iniqua e pure illegittima indulgenza, di talché, più che mai, si richiederà una valutazione ponderata da parte del Giudice. Si pensi all’emblematico caso di un consulente tecnico di parte che trasmetta al CTU, ben dopo la decorrenza del secondo termine (ordinatorio) ex art. 195 c.p.c. ed anzi a perizia definitiva già depositata, osservazioni critiche nelle quali si eccepiscano profili di nullità dell’elaborato (avendo il CTU esorbitato rispetto al perimetro dell’indagine a lui assegnata, avendo egli acquisito documenti in spregio al dovere d’allegazione probatorio, ecc…). Un approccio tollerante potrebbe portare a ritenere che tali repliche del CTP vadano comunque considerate ai fini della decisione, trattandosi pur sempre di allegazioni difensive (vedi Cass. Civ., ord. n. 16151/2021); ben più corretto invece sarebbe, a parer di chi scrive, considerare tali controdeduzioni tamquam non esset valorizzando l’insegnamento delle Sezioni Unite (sent. n. 5624/2022) secondo cui la mancata prospettazione nei termini ex art. 195 di osservazioni critiche all’elaborato peritale non preclude il fatto che le stesse possano essere successivamente svolte purché però “non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c.”, che come noto impongono di denunciare i rilevati profili di nullità alla prima difesa utile (nello specifico coincidente per l’appunto con le repliche di competenza del CTP).